Nota a Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 2020 n. 35012

Con la sentenza in commento la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che “in periodo di pandemia, l’incompatibilità ex art. 275 c.p.p., comma 4-bis, delle condizioni di salute con lo stato di detenzione per il pericolo di contagio deve essere ancorata – oltre che alla verifica astratta circa la presenza nell’indagato di una o più patologie, tali che in caso di contagio appunto risulti certo o altamente probabile il verificarsi di gravi complicanze o di morte – alla ulteriore verifica del rischio che il carcere in cui l’indagato si trovi ristretto sia un luogo nel quale concretamente sia possibile contrarre il virus”.

Questa, in sintesi, la vicenda processuale.

Il Tribunale del Riesame di Caltanissetta annullava l’ordinanza con la quale il G.I.P. aveva sostituito la misura della custodia in carcere originariamente applicata all’imputato con quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, disponendo quindi nei confronti del predetto il ripristino della custodia cautelare in carcere.

Avverso tale pronuncia l’imputato proponeva, pertanto, ricorso per Cassazione deducendo, anzitutto, la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 275 comma 4 bis c.p.p.

Il Tribunale del Riesame, infatti, nonostante avesse riconosciuto l’indubbia gravità del quadro patologico dell’imputato, difettando un pericolo concreto di contagio, aveva escluso una situazione di incompatibilità con il regime carcerario.

Secondo i Giudici, infatti, l’assenza di casi di positività presso la struttura carceraria ove era recluso il ricorrente e la circostanza che l’emergenza sanitaria nazionale fosse in generale diminuzione non comportavano un concreto rischio di infezione per il detenuto.

Con un ulteriore motivo di gravame veniva eccepita l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 D.L n. 29/2020 in quanto – ad avviso del ricorrente – contrastante con gli artt. 3, 27 comma 2 e comma 3, e 12 della Costituzione in relazione agli art. 3 e 7 della CEDU.

Come è noto, con la citata disposizione il Governo ha prescritto l’obbligo di rivalutare periodicamente la situazione dei soggetti imputati per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. nei confronti dei quali fosse stata disposta la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19.

La Suprema Corte, condividendo l’iter motivazionale del Tribunale e rigettando il ricorso, ha avuto modo, tuttavia, di specificare quali siano le condizioni affinché l’art. 275, comma 4 bis, c.p.p. possa trovare applicazione nell’attuale contesto epidemico.

La norma in questione disciplina i casi nei quali le condizioni di salute del detenuto risultino incompatibili con lo stato di detenzione statuendo che, in tali ipotesi, non possa essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere.

In particolare, ciò è previsto quando l’imputato sia affetto da AIDS o da altra malattia particolarmente grave.

In tali casi, secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte, “le condizioni di salute del detenuto e di inadeguatezza dell’Istituto di pena devono essere accertate sia in astratto, con riferimento ai parametri stabiliti dalla legge, sia in concreto” (così Cass. Pen., sez. 6, 15/07/2010, n. 34433).

Orbene, anche per quanto riguarda il giudizio di compatibilità della detenzione in carcere in tempo di emergenza pandemica occorrerà valutare la ricorrenza delle citate condizioni.
Più concretamente, come rilevato dai Giudici nella sentenza in commento, sarà necessario accertare, da un lato, che il detenuto sia affetto da una patologia tale che, in caso di contagio, sia certo o altamente probabile il verificarsi di gravi complicanze o di morte e, dall’altro, che sussista un rischio concreto per il detenuto di contrarre il coronavirus nel carcere in cui è ristretto.

Ai fini di tale verifica assumono rilevanza sia il pregresso riscontro di specifici casi di contagio da Covid-19 accertati tra i detenuti della medesima casa circondariale nonché la dimensione della diffusione del virus nell’area territoriale di riferimento.

Ma, aggiungono i Giudici, diventa, altresì, necessario accertare la possibilità di adottare idonee misure di prevenzione del contagio all’interno dell’Istituto carcerario.

È evidente che i principi (seppur garantisti e del tutto condivisibili) della sentenza in commento non possono essere sufficienti a razionalizzare la materia di cui si tratta. L’ordinamento penitenziario, necessita infatti, come più volte sollecitato dall’Europa, di interventi normativi urgenti da parte del Parlamento.

Si fa riferimento, in particolare, all’annoso problema del sovraffollamento degli istituti di pena, senza voler dimenticare, altresì, le condizioni di vita dei detenuti e le problematiche connesse all’edilizia carceraria.

Lo scoppio della seconda ondata di Covid-19 ha portato ad oltre cinquecento contagi fra i detenuti e ancora di più tra il personale penitenziario, facendo nuovamente emergere, da una parte, l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale prescritto dai DPCM e, dall’altra, di isolare i detenuti positivi al virus o quelli che presentano sintomi, a fronte di un sovraffollamento che, in alcune zone, sfiora il 170% (dati report Antigone).

La soluzione enunciata dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento rappresenta in definitiva una importante contestualizzazione dell’art. 275, comma 4-bis c.p.p. all’attuale situazione epidemiologica. Essa ha, infatti, il merito di intervenire (seppur parzialmente) su un tema che, per le ragioni sopra esposte, meriterebbe, invero, un intervento urgente da parte del Governo.